I nuovi poteri digitali hanno invaso gli spazi pubblici della scuola
In
questi ultimi due anni i poteri del capitalismo digitale hanno invaso
gli spazi pubblici della scuola, senza che nessuno abbia opposto la
minima resistenza. Le conseguenze potrebbero essere gravi e tornare
indietro molto complicato.
Se
ci dovessero dire che dall'oggi al domani tutti gli edifici
scolastici devono essere chiusi e che le classi, i laboratori e tutto
il personale trasferiti in edifici privati, magari di proprietà di
poche persone molto ricche, per le quali pagare affitti salati, beh,
sono pronto a scommettere, in molti grideremmo allo scandalo: la
scuola è pubblica e non può essere privatizzata.
Adesso
torniamo a marzo 2020, quando una pandemia virale ha costretto a
chiudere bar, negozi, uffici, cinema, teatri. E scuole. Ci si dovette
adattare con la didattica a distanza, cercando di prendere confidenza
con strumenti nuovi: telecamere, microfoni, ambienti di
videoconferenza, link, lavagne digitali. Col tempo le istituzioni
scolastiche sono riuscite a dare un'organizzazione alla scuola
virtuale.
Così, ad ogni docente, studente e studentessa, al personale
amministrativo, è stato associato un profilo istituzionale, le
lezioni, i consigli di classe e d'istituto si tenevano sulle
piattaforme di videoconferenza, i compiti venivano assegnati,
corretti, valutati, all'interno di canali digitali. Ancora oggi,
nonostante siano passati due anni dall'inizio dell'emergenza e,
fortunatamente, siamo tornati nelle nostre classi a guardarci negli
occhi, questi strumenti vengono largamente impiegati.
Le
piattaforme utilizzate sono essenzialmente due: G-Suite e Office 365
for Education, di Google e Microsoft, due colossi oggi non solo del
mondo digitale ma dell'intero sistema economico mondiale.
Gli
spazi della scuola sono stati evidentemente privatizzati, e,
attenzione, dato il largo impiego di questi strumenti, in misura
piuttosto consistente. Non mi pare vi siano state levate di scudi.
Anzi, l'ingresso delle grandi multinazionali digitali negli
ambienti scolastici è stato accettato senza la minima resistenza, se
non salutato come un fenomeno essenziale per il rinnovamento del
mondo della scuola.
Ora,
tutto ciò rientra perfettamente nella strategia di normalizzazione
del capitalismo digitale: la retorica ammaliatrice dell'innovazione
digitale è tale per cui qualsiasi cosa arrivi dalla Silicon Valley
coincide con il futuro, con l'inevitabile, con l'ineluttabilità:
non può che avere connotati positivi e utili per l'umanità.
L'opposizione del pubblico viene ridimensionata come la prevedibile
e scellerata riluttanza di sciocchi che si impuntano per resistere al
cambiamento, aggrappandosi ad un passato che non potrà più tornare.
Invece
ci sono questioni politiche e sociali molto profonde, che abbiamo già
avuto modo di evidenziare in questa rubrica negli scorsi numeri di
Aprile. [1,2,3]
L'ingresso
delle multinazionali digitali nella scuola
è infatti naturalmente connesso con la questione dei dati e
dell'utilizzo dei dati che queste aziende fanno ai fini della
profilazione e del marketing: i dati acquisiti mentre utilizziamo i
nostri dispositivi servono a
generare informazioni su cosa faremo immediatamente, tra poco e tra
molto tempo. Queste informazioni vengono poi vendute per produrre
pubblicità mirate e orientare le nostre scelte commerciali e
politiche, fino a modificare i nostri comportamenti. [1,3,4]
La
diffusione di Google Classroom, che ha riguardato tutti gli ordini e
i gradi della scuola italiana, ha consentito a Google di avere
accesso persino ai dati di bambini e bambine di 3 anni, la cui intera
esistenza, a questo punto, sarà monitorata dal capitalismo
della sorveglianza.
Google,
interrogata sul tema, sostiene di non utilizzare informazioni dagli
utenti nella scuola primaria e secondaria al fine di produrre
pubblicità mirata, ma sono diverse le indagini a suo carico, alcune
conclusasi con sanzioni: nel 2019 la commissione nazionale francese
sulla protezione dei dati (CNIL) ha multato Google per violazione del
protocollo GDPR; sempre nel 2019 YouTube ha ricevuto una sanzione di
170 milioni di dollari per l'utilizzo di dati di minori ai fini del
marketing; nel 2020 è stata vinta una classaction per 2,5 miliardi
di dollari contro l'azienda di Mountain View per aver violato la
privacy di bambini di età minore di 13 anni. [5,6]
Di
fatto non esistono strumenti di controllo pubblici all'attività di
Google e del resto non si spiegherebbe il crescente interesse della
finanza per il mondo del digitale nell'universo educativo con i
cosiddetti venture capital, investimenti ad alto rischio. Si stima
che questi investimenti tra due anni saranno dell'ordine dei 400
miliardi di dollari. [6]
Ammettendo
pure che Google non collezioni i dati provenienti dalle scuole, c'è
un tema profondo riguardante l'aspetto educativo: il costante
utilizzo dei prodotti e dei servizi di Google a scuola, di fatto,
abitua al loro utilizzo anche al di fuori. Esistono altre risorse per
preparare dei questionari al di fuori dei moduli di Google? Esistono
altre risorse per modificare i documenti di testo al di fuori di
Google Documenti? Esistono altre risorse per la videoconferenza oltre
Google Meet? Esistono altri provider di posta elettronica oltre
GMail?
Insomma,
se già nella vita di tutti i giorni la tendenza è quella di
convergere verso un unico grande attore commerciale dell'offerta
digitale (banalmente, se acquisti qualsiasi smartphone Android è
necessario un profilo Google), a scuola non si fa che accelerare
questo processo.
Non
esiste alcun dibattito pubblico sulla questione dei dati, figuriamoci
a scuola. E' un paradosso che si presti grande attenzione alla
questione della privacy per la diffusione delle informazioni al fine
di proteggere i ragazzi da fenomeni come il cyberbullismo, ma nessun
interesse per come i loro dati vengano utilizzati da pochissime
persone al mondo per arricchirsi e per speculare sui loro
comportamenti.
La
pandemia ha dato un grande impulso all'utilizzo dei dispositivi e
all'utilizzo di risorse digitali, ma con questi all'economia dei
colossi economici del digitale, che hanno invaso gli spazi pubblici
della scuola: si sono moltiplicati i profili Google, così come le
chat Whatsapp. Oltre agli spazi del lavoro ne sono mutati i tempi,
con insegnanti sempre operativi e a disposizione delle famiglie e
dell'istituzione scolastica. I tradizionali strumenti di confronto
e discussione sono stati sostituiti da ambienti virtuali. Ambienti
virtuali privati. Rimane da capire per quale motivo non si
sia ritenuto ovvio pensare allo sviluppo di una piattaforma pubblica
digitale per il mondo della scuola. L'INDIRE, l'istituto
Nazionale per la Documentazione, l'Innovazione e la Ricerca
Educativa, è stato istituito per offrire strumenti di ricerca e
innovazione al mondo della scuola ed è stato il grande assente in
questi ultimi due anni, limitandosi a promuovere l'uso delle
risorse di Google e Microsft, invece che lavorare a potenziare
progetti open source che già offrivano strumenti interessanti, come
opendidattica.
[7,8]
Non
resta che chiedersi se, finita l'emergenza, non sia il caso di
porre delle questioni serie sull'occupazione delle grandi
coorporation dei big data nella scuola e rivedere alcune scelte fatte
negli ultimi anni. Con la paura che sia molto difficile tornare
indietro e riguadagnare quel che è stato perso.
Matteo Sestu
[1]
https://www.aprilemensile.it/l/nuovi-poteri-digitali2/
[2]
https://www.aprilemensile.it/l/nuovi-poteri-digitali3/
[3]
https://www.aprilemensile.it/l/nuovi-poteri-digitali/
[4]
Il
Capitalismo della Sorveglianza, S. Zuboff, Luiss University Press,
2019
[5]
https://www.cbsnews.com/news/google-education-spies-on-collects-data-on-millions-of-kids-alleges-lawsuit-new-mexico-attorney-general/
[6]
Stockman,
C., Nottingham, E. (2022) Surveillance Capitalism in Schools: What's
the Problem? Digital Culture & Education, 14 (1), 1-15
[7]
https://www.tecnicadellascuola.it/piattaforme-digitali-e-giusto-che-google-spadroneggi
[8]
https://opendidattica.org/wordpress/