Brevi note per l'identificazione di un capo del Governo
Trent'anni fa, era il 2 giugno 1992,
e l'allora direttore generale del
Tesoro Mario Draghi non trovava
di meglio da fare per celebrare solennemente la festa dalla Repubblica che pronunciare un discorso a bordo del panfilo
Britannia di proprietà della regina
Elisabetta sostenendo ("visto che non
c'è una Thatcher ... in Italia" - sono parole sue!) le ragioni tecniche della necessità delle privatizzazioni.
Iniziava il discorso dichiarando che
"alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche
possedute dallo Stato ad altre istituzioni
cripto-pubbliche ... Ma, per quanto
riguarda le vendite reali delle maggiori
aziende pubbliche al settore privato, è
stato fatto poco. Non deve sorprendere,
perché un'ampia privatizzazione è una
grande - direi straordinaria - decisione
politica, che scuote le fondamenta dell'ordine socio-economico, riscrive confini
tra pubblico e privato che non sono stati
messi in discussione per quasi cinquant'anni, induce un ampio processo di
deregolamentazione, indebolisce un
sistema economico in cui i sussidi alle
famiglie e alle imprese hanno ancora un
ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un'importante decisione politica che va oltre le
decisioni sui singoli enti da privatizzare.
Pertanto, può essere presa solo da un
esecutivo che ha ricevuto un mandato
preciso e stabile" (che ha avuto il
13.02.2021 - data di investitura dell'attuale governo).
Ma seguiamo ancora il discorso del
1992. Dice Draghi: "L'implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un'opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l'efficienza e le
dimensioni dei nostri mercati finanziari.
[...] Tuttavia, consideriamo questo processo - privatizzazione accompagnata
da deregolamentazione - inevitabile perché innescato dall'aumento dell'integrazione europea. L'Italia può promuoverlo
da sé, oppure essere obbligata dalla
legislazione europea. Noi preferiamo la
prima strada". E infine: "Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del
Tesoro, la principale ragione tecnica ...
per cui questo processo decollerà. La
ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di
tornasole della dipendenza del nostro
governo dai mercati stessi, dal loro buon
funzionamento come principale strada
per riportare la crescita". Tutti questi "principi" sono stati ampiamente ribaditi successivamente "perché oggi la politica
economica è più pragmatica e i leader
che la dirigono possono usare maggiore
discrezionalità" (intervento di Draghi al
41° meeting di Rimini, 18 agosto 2020).
Ciò non è sfuggito a Paolo Maddalena
(ex vicepresidente Emerito della Corte
Costituzionale) che ha osservato come
"la violazione della costituzione da parte
del governo Draghi è arrivata a un punto
di assoluta insostenibilità", d'altro canto
"se oggi si ritiene che perseguire le leggi
di mercato ... sia un atto legittimo significa non aver capito che su tutto dominano
i principi e le forme istituzionali" (7 ottobre
2021).
La tecnica non è mai neutrale (lo ha ricordato anche Landini in occasione dello
sciopero generale del 16 dicembre scorso) e che dunque i "tecnici" al governo in
realtà esprimono (come hanno sempre
espresso) specifiche istanze non suffragate dall'esito della normale dialettica partitica alla base di qualunque "sana democrazia liberale". Oggi ciò significa che essi
rappresentano un sintomo del fallimento
della politica e della conseguente crisi
delle istituzioni repubblicane.
Basta tener presente che dal 2013 al
2021 si sono avvicendati ben sette presidenti del consiglio (Monti, Letta, Renzi,
Gentiloni, Conte 1, Conte 2, Draghi) di cui
ben cinque non eletti (Monti, Renzi, Conte
1, Conte 2 e Draghi) e che i governi che,
nel bene e (soprattutto) nel male, hanno
operato le scelte più importanti e che
hanno pesantemente inciso sul terreno
economico-sociale sono proprio quelli
presieduti da questi ultimi.
E' in questo clima che si inserisce Draghi
il salvatore, sincero e trasparente sostenitore del famoso TINA (There Is No
Alternative) di thatcheriana memoria, cioè
della convinzione che la politica non abbia
nessuna possibilità di uscire dal binario
unico tracciato dal mercato. In questo
senso il suo approdo a presidente del
consiglio (e, per nostra fortuna, non ai
sette anni di Quirinale) marca simbolicamente il tardivo culmine di questa interminabile stagione neoliberista.
Lo vediamo quasi tutti i giorni, è l'esaurimento della democrazia, e lo ha compreso quella abbondante metà degli italiani
che ha smesso di andare a votare, prendendo atto della completa inutilità di quello che appare come un rito di una religione che non esiste più.
Ricordiamo che la carica di direttore
generale del Tesoro, che Draghi ha ricoperto dal 1991 al 2001 e da cui ha diretto
la Commissione nazionale per le privatizzazioni (tanto per cambiare!), gli ha consentito di promuovere il TUF (Testo Unico
delle Finanza - decreto legislativo n° 58
del 24.02.1998) che è la base della privatizzazione agevolata delle maggiori
imprese pubbliche italiane come
Autostrade, Finmeccanica, Telecom Italia,
Banco di Napoli, Banca Nazionale del
Lavoro, Eni, Tirrenia, etc.. A questo proposito rammentiamo che la Corte dei Conti
ha riconosciuto come tale intervento è
stato condotto arrecando un forte dimensionamento dei potenziali guadagni che la
vendita di tali Enti avrebbero potuto garantire all'erario italiano (delibera 19/2012/G).
In aggiunta a ciò è certamente controverso il fatto che l'incarico di vicedirettore e
amministratore della banca di investimenti americana Goldman Sachs, ricoperto
da Draghi dal 2002 al 2005 per guidarne
le strategie europee dalla sede di Londra,
ha gettato ombre riguardo a un potenziale conflitto di interessi.
Dopo essere stato presidente di
Bankitalia dal 2006 al 2011, viene nominato governatore della Banca Centrale
Europea in una fase cruciale per
l'Eurozona. Utilizzando in criterio secondo
cui "le dinamiche inflattive precedono
quelle monetarie" Draghi agisce abbassando subito il tasso di interesse fissato
dalla banca centrale. A capo della BCE
egli sembra dunque abbracciare una
linea da alcuni definita keynesiana, cioè
tesa all'espansione, all'abbattimento dei
tassi di interesse e a una erogazione di liquidità per governi, banche e imprese.
Negli anni 2011-2012 vengono quindi
varati i piani di rifinanziamento a lungo
termine che favoriscono la stabilizzazione del sistema finanziario ottenuto a
seguito del suo famoso discorso tenuto a
Londra il 26 luglio 2012 alla Global
Investiment Conference (conosciuto per
la frase "Whatever it takes" tradotto con
"costi quel che costi" o anche "tutto ciò
che è necessario") e qui - come denunciato da Varoufakis in suo recente libro -
rammentiamo che, nel corso della crisi
greca, fu proprio lui a minacciare l'interruzione di erogazione di liquidità alle banche per indurre forzosamente il governo
Tsipras ad approvare le riforme di austerità di rientro dal debito attraverso il
Meccanismo Europeo di Stabilità (MES)
di allora.
Ma dalle terre elleniche torniamo a casa
nostra per trovare Draghi che attraverso
la BCE minaccia di cessare l'acquisto dei
titoli di Stato che fino a quel momento
avevano dato ossigeno all'Italia e costringe il già poco credibile e grottesco esecutivo Berlusconi a rassegnare le proprie
dimissioni a favore di Monti per mezzo
della "creazione artificiale di uno stato
emergenziale dalle tonalità simili a quello
che ha determinato l'insediamento dell'attuale governo tecnico" (R. D'Orsi).
Abbiamo anche assistito, nel 2020, a un
momento in cui è sembrato si fossero diffuse nell'opinione pubblica aspettative di
mutamento, con l'ampliamento del margine di un possibile consenso a politiche
di redistribuzione della ricchezza, di
ripensamento del "pubblico" e di uno sviluppo delle istituzioni del welfare e della
cura come basi fondamentali del vivere
comune, quindi oltre le logiche del management neoliberista.
La debolezza del governo Conte 2 è
stata quella di non aver recepito e dato
forza a queste istanze. Si è limitato, nella
vertigine dell'emergenza, a interventi di
contenimento della crisi, con misure di
sostegno frammentarie, capaci di "prendere tempo" senza approfittare dei nuovi
margini di bilancio per riorganizzare il
sistema della protezione sociale.
E' bastato così poco per determinare la
mobilitazione dei gruppi di potere -
Confindustria, banche e simili, con l'ausilio della grancassa dei media - per scongiurare anche solo la minaccia che un
dibattito pubblico potesse essere animato dal lessico del cambiamento. Il solito e
ormai ridicolo Renzi si è fatto subito interprete di queste istanze conservatrici con
l'illusoria pretesa di pensare di potersi
candidare alla loro rappresentanza.
Con lo scioglimento del broglio della crisi
di governo e la nomina di Draghi, si
compie dunque un tragitto che va interpretato per quello che è: insieme al commissariamento del parlamento emerge
l'esplicito intento di ricomporre un blocco
di potere stabile.
Ricordiamo ancora che nel suo recente
discorso di investitura al senato del
17.02.2021 il neo-presidente annuncia la
riforma fiscale perché essa "segna in
ogni paese un passaggio decisivo. Indica
priorità, dà certezze, è l'architrave della
politica di bilancio". Di qui il noto scandalo: Carlo Clericetti svela dal suo blog che
quasi tutta la parte riguardante la riforma
fiscale era il frutto di un "copia e incolla"
di un articolo dell'ultraliberista Francesco
Giavazzi (suo vecchio amico, sostenitore
dell'"austerità espansiva" e oggi consigliere economico dell'attuale governo in
opposizione a Mariana Mazzucato consulente del "Conte 2") apparso sul
Corriere della sera il 30 giugno dell'anno
precedente. Nonostante questa clamorosa notizia il governo ha messo abbondantemente in pratica le indicazioni presenti nel discorso di Draghi-Giavazzi,
frutto di quello che è stato definito "il
governo dei migliori" che sono puntualmente arrivate con le legge approvata il
30 dicembre scorso.
E' noto che contro questa riforma si sono
schierate la CGIL e la UIL perché "premia le fasce di reddito superiori ai 40.000
euro, dedicando alle altre benefici irrisori
in termini assoluti e relativi", evidenziando che "il Governo spreca l'opportunità di
investire su una seria riforma del fisco
dando tanto a chi ha già tanto e poche
briciole a chi stenta ad arrivare a fine
mese".
Che dire? E' chiaro che il vero comando
è nel circolo relazionale-sistemico di produzione-mercato-consumo, un corpo
senza testa, che però proprio per questo
ha bisogno della protesi di una personalizzazione del capo, dell'immagine del
condottiero attraverso il meccanismo di
democrazie sempre più demagogicopopuliste. I grandi mostri non sono stati
detronizzati, sono stati secolarizzati nelle
funzioni di comando dei Fondi monetari
internazionali, delle Banche centrali, e
giù giù fino alle Agenzie di rating e infine
dei nuovi grandi monopoli della comunicazione mediatica che fanno riproduzione allargata di tutto questo. E, purtroppo, non c'è più popolo, quello vero, quello serio, strutturato in classi, popolo politico e antagonistico socialmente. In impercettibile parte fatto salire sull'ascensore
sociale, in massima parte fatto precipitare
giù giù dalle scale fino a cadere nel plebeismo. Al posto del popolo politico è
rimasto il populismo antipolitico. La classica dialettica che abbiamo conosciuto e
praticato, di consenso e di conflitto, governanti/governati, è stata ridotta da realtà di
lotta a virtualità di parola. E, anche qui,
nostro malgrado, siamo tutti nella stessa
barca come spesso ci viene detto e predicato. I governi politici sono essi stessi
economicamente governati, o più esplicitamente, sono governi tecnici (o anche di
"salvezza nazionale", che fa più "audience"). E i cittadini chiamati sovrani lo saranno sempre meno ma saranno sempre più
chiamati a eleggere tecnici di sistema,
esperti manutentori della macchina, funzionari della moneta, amministratori
esperti del condominio-paese e poi, nel
sabato del villaggio delle elezioni a plebiscitare qualche ciarlatano venditore del
mercato delle pulci.
E' già qualcosa oggi riuscire a salvare
quel che rimane della nostra dignità e
intelligenza critica, e la speranza - auguriamoci non sia solo quella - di un mondo
migliore per i nostri figli; dobbiamo liberarci almeno mentalmente della soggezione
alle leggi di mercato sostenute dalla
pseudo-scienza assurta a nuovo dogma
globale.
E per comprendere le ragioni dell'attuale
implosione socio-economica dobbiamo
riabilitare quella concezione di vita che
considera il capitalismo come rapporto
sociale: una visione del mondo incarnata
nel rapporto tra denaro e lavoro mirato
solo alla creazione di plusvalore, merce,
profitto nelle loro varie forme e che per
tenersi artificialmente in vita sa di dover
passare alle maniere forti. Il principale
compito della mia generazione - ormai al
tramonto e in via di estinzione - e soprattutto delle nuove e future generazioni non
asservite (se ci saranno) sarà quello di
ridefinire il rapporto tra lavoro, comunità e
ricchezza sociale oltre la sua accezione
capitalistica. Ma perché ciò accada
dovremo trovare il coraggio e la convinzione di resistere all'attuale deriva autoritaria legittimata dal "capitalismo emergenziale".
Mario Loi - 08.02.2022