Le ragioni delle scelte politiche catastrofiche statunitensi
Per
cercare di capire perché gli USA continuano a fare scelte
catastrofiche portandoci dritti dritti verso il disastro dobbiamo
tornare al XX secolo perché è stato allo stesso tempo "breve"
(Eric J. Hobsbawm - Il secolo breve) e "lungo" (Giovanni
Arrighi - Il lungo XX secolo), ma è stato anche il secolo "della
violenza" (Niall Ferguson - XX secolo, l'età della violenza).
Cominciamo
col dire che la guerra tra Stati e le guerre di classe, di razza e di
sesso hanno da sempre accompagnato lo sviluppo del capitale perché,
dai tempi dell'accumulazione primitiva, sono le condizioni della
sua esistenza. La formazione delle classi (degli operai, dei
colonizzati, delle donne) comporta una violenza extra-economica che
fonda il dominio e una violenza che lo conserva, stabilizzando e
riproducendo i rapporti tra vincitori e i vinti. E' nello
squilibrio e nella differenza di classe che trova fondamento e
alimentazione il potere del capitale. Non c'è capitale senza
guerre di classe, di razza e di sesso e senza Stato che ha la forza e
i mezzi per condurle! La guerra non è una realtà esterna, ma è
costitutiva del rapporto di capitale, anche se da troppo tempo sembra
che ce ne siamo dimenticati. Nel capitalismo le guerre non scoppiano
perché ci sono gli autocrati brutti e cattivi contro i democratici
belli e buoni.
Le
guerre che danno inizio a ogni grande ciclo di accumulazione, si
ritrovano anche alla sua fine. Nel capitalismo generano catastrofi e
disseminano la morte in maniera incomparabile con altre epoche
storiche. Ma esiste un momento nella storia del capitalismo,
all'inizio del XX secolo, in cui la relazione tra guerra, Stato e
capitale si annoda a tal punto che il suo potere di distruzione, che
è una condizione del suo sviluppo (la «distruzione creativa» di
cui parla Schumpeter), da relativo diventa assoluto. Assoluto perché
mette in gioco l'esistenza stessa dell'umanità e le condizioni
di vita di molte altre specie.
E'
accertato che la "grande trasformazione" che strutturerà la
macchina bicefala Stato/capitale è avvenuta prima della crisi
finanziaria del 1929, durante la guerra del 1914.
La
Grande Guerra è una novità assoluta perché è il risultato di
un'integrazione dell'azione dello Stato, dell'economia dei
monopoli, della società, del lavoro, della scienza e della tecnica.
Tutti questi elementi concorrono alla fondazione di una mega macchina
la cui produzione è finalizzata alla guerra. Ciascuno di essi ne
uscirà profondamente trasformato: lo Stato accentua il potere
esecutivo per gestire "l'emergenza", l'economia subisce la
medesima concentrazione del potere politico consolidando i monopoli,
la società nel suo insieme e non solo il mondo del lavoro viene
mobilitata per la produzione, l'innovazione scientifica e tecnica
passa sotto il controllo diretto dello Stato e subisce
un'accelerazione fulminea.
È
in questo senso che la guerra è "totale". Esige la mobilitazione
dell'economia, della politica e del sociale, cioè una "produzione
totale". Tra guerra, monopoli e Stato «si crea un legame che non
potrà più essere sciolto da nessun liberalismo» (Di Leo - L'età
della moneta).
La
nascita di quello che Marx nei "Grundrisse" chiamava il «General
Intellect» (cioè, la produzione non dipende solo dal lavoro diretto
dei lavoratori ma dall'attività e dalla cooperazione della società
nel suo insieme, dalla comunicazione, dalla scienza e dalla
tecnologia, etc.) si realizza sotto il segno della guerra. Nel
«General Intellect» marxiano non c'è la guerra, mentre nella sua
attuazione reale è lei che completa e integra il tutto. Il
capitalismo riorganizzato dalla guerra totale è diverso da quello
descritto da Marx. Lo stesso Keynes (Esortazioni e profezie) a sua
volta affermava che il suo programma economico poteva essere
realizzato solo in un'economia di guerra, perché solo in questo
caso tutte le forze produttive sono spinte all'estremo delle loro
possibilità.
Questa
temibile "macchina" in cui guerra e produzione si confondono,
provoca un salto nello sviluppo dell'organizzazione del lavoro,
della scienza e della tecnica; il coordinamento e la sinergia delle
varie forze produttive e delle funzioni sociali si traducono in un
aumento della produzione e della produttività. Ma
produzione e produttività sono per la distruzione.
Per la prima volta nella storia del capitalismo la produzione è
"sociale" e al tempo stesso, completamente finalizzata alla
distruzione. Lo sviluppo delle forze produttive è indirizzata a un
aumento della capacità di distruggere. Una corsa folle si scatenerà
nella ricerca/innovazione per aumentare la potenza di distruzione:
distruggere il nemico, il suo esercito ma anche la sua popolazione,
le sue strutture e infrastrutture.
Questo
processo ha il suo compimento nella costruzione della bomba atomica
durante la Seconda guerra mondiale. La scienza, massima espressione
della creatività e della produttività dell'essere sociale,
espande radicalmente il potere di distruzione: la bomba atomica, per
la prima volta nella storia, mette in gioco la sopravvivenza stessa
dell'umanità.
Günter
Anders nota a questo proposito che se fino alla Prima guerra mondiale
gli uomini erano individualmente mortali e l'umanità immortale,
dalla costruzione della bomba atomica l'identità di produzione e
distruzione perfettamente incarnata dalla scienza, minaccia di
estinguere l'umanità.
L'azione
di questa nuova organizzazione della macchina Stato-capitale non si
fermerà con la conclusione dei combattimenti, poiché la
"mobilitazione totale" per la "produzione totale", la
gestione dell'emergenza, la concentrazione del potere esecutivo ed
economico, si trasformano in norme ordinarie della gestione
capitalista. Il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale viene
chiamato la "grande accelerazione" e al suo interno si ritroverà
intatta l'identità di produzione/distruzione radicata nel
quotidiano del lavoro e del consumo del "boom" economico.
La
macchina produttiva integrata non è stata smantellata, ma investita
nella ricostruzione. Diventerà poi evidente che la riparazione dei
danni causati dalla guerra determinerà una nuova e ancora più
formidabile distruzione: con la grande accelerazione abbiamo fatto un
grande passo verso il punto di non ritorno nella degradazione
dell'equilibrio climatico e della biosfera.
Il
capitalismo del dopoguerra continua a sfruttare l'integrazione
della mega macchina generando tassi di crescita e produttività
straordinari cui corrispondono tassi di distruzione delle condizioni
di abitabilità del pianeta altrettanto straordinari. La specie umana
è minacciata di estinzione una seconda volta. E tutto questo oggi
vien chiamato crescita.
L'identità
di produzione e distruzione continua a dispiegarsi nel quadro di una
"pace" le cui condizioni di possibilità sono sempre determinate
dalla guerra, stavolta fredda.
Ancora
Günter Anders (L'uomo è antiquato) abbozza una prima revisione di
questi concetti alla luce della nuova realtà del capitalismo. «Lo
status morale del prodotto (lo status del gas velenoso o quello della
bomba all'idrogeno) non influisce sulla moralità del lavoratore
che partecipa alla produzione». È politicamente inconcepibile «che
il prodotto alla cui fabbricazione si lavora, anche il più
ripugnante, possa contaminare l'opera stessa». Il lavoro, come il
denaro di cui è la condizione, «non ha odore». «Nessuna opera può
essere moralmente screditata dal suo obiettivo». I fini della
produzione non devono riguardare in alcun modo l'operaio, perché,
«questa è una delle caratteristiche più disastrose del nostro
tempo», il lavoro deve essere considerato «neutro rispetto alla
moralità (...) Qualunque lavoro si faccia, il prodotto di questo
lavoro rimane sempre al di là del bene e del male».
Nelle
condizioni del capitalismo contemporaneo la situazione si è
ulteriormente radicalizzata, qualsiasi lavoro (e non solo quello che
produce "gas velenoso o la bomba all'idrogeno") è distruttivo;
qualsiasi consumo (e non solo guidare l'auto, sprecare l'acqua,
ecc.) è distruttivo. È ormai impossibile dire se il lavoro e il
consumo producano l'essere o lo distruggano, perché sono nello
stesso tempo forze di produzione e forze di distruzione (d'altra
parte Marx ci fa presente nelle "Teorie sul plusvalore" che
«consumo è anche produzione», ad es. «nell'alimentazione ...
che è una forma di consumo, l'uomo produce il proprio corpo»).
Nel capitalismo, gli individui sono "complici", loro malgrado,
della distruzione poiché́ la producono lavorando e consumando, e
vittime dello sfruttamento e del dominio poiché́ costretti a
produrre e a consumare.
La
matrice economica e politica della macchina bicefala Stato/capitale è
ancora quella disegnata dalla Prima guerra mondiale:
l'intensificazione della finanziarizzazione, l'ulteriore
concentrazione del potere economico e politico e la nuova
mondializzazione non fanno che accrescere la sua dimensione
produttiva/distruttiva, esaltando le sue caratteristiche
anti-democratiche e totalitarie
Il
"neoliberalismo" non soltanto nasce dalle guerre civili in
America Latina, ma si alimenta di tutte le guerre che gli americani e
la Nato hanno dichiarato nel mondo, prima contro un nemico che
avevano essi stessi contribuito a creare (ad es. il terrorismo
islamico) e poi contro le potenze emerse dalla guerre di liberazione
dal colonialismo (c'è il maturato sospetto che il vero obiettivo
della guerra in corso sia la Cina).
La
mondializzazione contemporanea è molto differente da quella
sviluppatasi a cavallo del XIX e XX secolo. Quest'ultima aveva come
obiettivo la divisione coloniale del mondo, mentre l'attuale non
può più contare su un Sud sottomesso all'Occidente. Al contrario,
alcune ex colonie sono diventate delle potenze economico-politiche
che fanno vacillare un Nord sprovvisto di ogni idea capace di
stabilire la sua egemonia, se non con l'uso delle armi.
Il
Sud pone nuovi problemi: le modalità dei neo-capitalismi adottate
dalle ex-colonie non fanno che aumentare l'estensione della coppia
gemella produzione/distruzione, dimostrando che l'azione della
macchina Stato-capitale non può essere estesa al resto dell'umanità;
il capitalismo mondializzato contemporaneo porta al punto di
irreversibilità la devastazione che la grande accelerazione aveva a
sua volta incrementato nel dopoguerra.
Accecato
da un delirio guerriero, il Nord del mondo non riesce a vedere che
oramai costituisce una minoranza non soltanto da un punto di vista
demografico (anche nel caso della guerra in Ucraina la maggioranza
dei paesi del pianeta non si è allineata alle posizioni del Nord,
perché sanno di essere tutt'ora nel mirino dell'arroganza
dominatrice USA).
Dopo
trent'anni di guerre condotte dagli americani e dalla Nato per
assicurarsi il loro potere unilaterale, la violenza ritorna in
Europa, imposta dagli Stati Uniti con il consenso delle inette classi
dirigenti europee completamente succubi della volontà americana
(suicidio di un'Europa morente da decenni accelerato
dall'inclusione voluta da americani e inglesi di Stati dell'est
che non hanno niente da invidiare all'autocrazia russa). La guerra
si è oramai insediata per durare, poiché gli americani non
diminuiranno la pressione armata fino a quando non riusciranno a
costruire l'impossibile Impero, progetto che possiamo già ora
definire suicida e omicida. La sventura dell'umanità per i
prossimi anni è racchiusa in questa frase di Biden, guerrafondaio
come tutti i presidenti USA, di certo uno dei peggiori: «Far sì che
l'America, ancora una volta, guidi il mondo», vero programma della
sua presidenza.
Le
tristi parole di Keynes s'adattano perfettamente sia alla tragedia
della guerra che alla catastrofe ecologica: l'egemonia del capitale
finanziario che aveva condotto alla Prima guerra mondiale, ai
fascismi, alle guerre civili, a Hiroshima contiene una «regola
autodistruttiva» che agisce su «tutti gli aspetti dell'esistenza»,
e che vale anche oggi. La violenza che i capitalisti e lo Stato
possono scatenare contiene già la catastrofe ecologica perché pur
di non perdere profitti, proprietà, potere sono «capaci di spegnere
il sole e le stelle».
Stiamo
vivendo il compimento di un processo, cominciato un secolo fa e che
ha conosciuto un'accelerazione, alla fine degli anni Settanta, di
chiusura di ogni "spazio pubblico" e oggi di ogni possibile
ambito comune, di saturazione da parte della proprietà privata di
ogni aspetto della vita individuale e collettiva. La riduzione
progressiva della già debole e decrepita democrazia è la condizione
politica che deve necessariamente accompagnare l'identità di
produzione e distruzione perché, dall'inizio del secolo scorso,
continua a progredire radicandosi nella macchina Stato-capitale le
cui promesse durano il tempo di un breve "bengodi". Basta anche
un'analisi superficiale del capitalismo e della sua storia per
capire che dopo corti periodi di euforia (la "belle époque"
d'inizio XX secolo e quella di fine secolo - gli anni Ottanta e
Novanta), durante i quali il capitalismo sembra trionfare delle sue
contraddizioni, non gli resta che la guerra e la dittatura per uscire
dalle sue impasse.
La
biopolitica («fare vivere e lasciare morire») svela tutto il suo
contenuto "ideologico" di fronte alla realtà della macchina
bicefala Stato-capitale che ha prima scatenato la violenza del
secondo per in seguito lasciare libero corso alla violenza del primo.
Due violenze che, congiunte, ci portano molto lontani dalla
pacificazione governamentale del «lasciar vivere».
La
scomparsa possibile dell'umanità a causa della violenza
concentrata della bomba atomica che, negli anni Cinquanta, Günther
Anders annunciava, è oggi rilanciata dalla violenza "diffusa"
del riscaldamento climatico, della degradazione della biosfera,
dall'impoverimento dei suoli, dallo sfruttamento della terra, etc.
Due temporalità differenti, l'istantaneo della bomba e la durata
della devastazione ecologica, si sono sommate perché derivano dalla
stessa fonte, l'identità di produzione/distruzione. Le due minacce
convivono nell'attuale guerra in Ucraina e noi siamo sottoposti sia
al pericolo atomico (che non era mai scomparso) sia a quello, lento,
ecologico.
La
prosperità per tutti si è rapidamente trasformata in una mostruosa
concentrazione della ricchezza per pochi, in devastazione finanziaria
e in lotta a morte per l'egemonia economica e l'accesso alle
risorse. La salvaguardia della vita in cambio d'obbedienza che, a
partire da Hobbes, lo Stato doveva garantire contro i pericoli della
guerra di tutti contro tutti, è stata doppiamente smentita:
dall'organizzazione dei massacri delle guerre industriali e
dall'estinzione possibile della specie umana che è già
sufficientemente avanzata.
Non
ci sono altre alternative che rompere questi legami di subordinazione
che ci fanno oggettivamente complici per sottrarci da questi rapporti
di lavoro e di consumo, vale a dire perseguire fino in fondo il
rifiuto del lavoro coatto e del consumo obbligatorio. Forse ci è
rimasto solo lo spazio, attraverso quel rifiuto, per una (lenta)
costruzione di un "General Intellect" col segno rovesciato
attraverso l'utilizzo collettivo dei beni comuni prima che vengano
definitivamente saccheggiati dagli interventi predatori della
"crescita" capitalista il cui bottino i cantori della
postmodernità identificano con lo sviluppo.
Mario
Loi
21.04.2022